Non è difficile capire come i ciechi possano giocare a baseball, c’è un protocollo collaudato da anni.
Non c’è il lanciatore, sonagli consentono l’individuazione della pallina, la seconda base è vedente, le guide indicano la direzione di corsa all’attaccante segnalando la loro presenza in campo con battito di racchette che diventa sempre più frenetico quando l’obiettivo si avvicina.
Ciò che appare apparentemente incomprensibile invece è come la Leonessa sia riuscita a conquistare la Coppa Italia senza avere in città un campo dove allenarsi e giocare le partite, cosa che le succede da tre anni dopo la dismissione del vecchio impianto del Cus.
Prerogativa.
Perché se questa disciplina è semplice da seguire, è molto difficile praticarla se le condizioni non sono di massima sicurezza.
Le zone di campo tra una base all’altra, ad esempio, devono essere d’erba, perché il giocatore possa individuarle.
La struttura dev’essere dotata di segnalatori acustici che rivelino l’avvio dell’azione ed è bene che i non vedenti possano muoversi sempre nello stesso ambiente, perché possano memorizzarlo.
Soli, sempre in trasferta, contro ogni favore del pronostico e con pochi allenamenti alle spalle - condotti su un campo da hockey ovviamente senza le strutture adeguate per tale sport - i giocatori del Brescia hanno osato l’impossibile e il loro coraggio è stato premiato portandosi a casa il trofeo.
Non a caso, in condizioni ancora peggiori - in piena emergenza Covid - erano riusciti a vincere lo scudetto del 2020.
Una delle giocatrici, Barbara Menoni, che spesso ha come guide i tre figli, volle che il titolo fosse dedicato alle vittime della pandemia.
«Sono centralinista alla Poliambulanza - spiega - e quel periodo resta incancellabile.
I familiari dei ricoverati chiamavano per avere notizie e non era semplice accontentarli.
Tornavo sempre a casa con la morte nel cuore».
Ideale chiusura del cerchio, la fase finale della Coppa Italia è stata disputata a Codogno, altra terra martoriata dal virus, segnale non trascurabile che ha caricato i giocatori.
E se la Leonessa non ha casa, paradossalmente la trova molto facilmente all’estero perché dirigenti e allenatori del club da anni divulgano questo sport fuori dai confini nazionali e col loro impegno sono nate squadre in Inghilterra, Madagascar e Pakistan.
Ambiente.
La Leonessa è un mondo, non una semplice squadra.
Alla premiazione in Loggia lo ha spiegato molto bene Daniele Sandonnini, uno dei tecnici.
«Il nostro team è un meraviglioso mosaico di età e di culture diverse».
Perché ci giocano tutti, dopo un’attenta ricerca di talenti nelle scuole e ora che Brescia è diventata una delle squadre più forti, attrae anche giocatori da fuori.
Quest’anno alla compagnia si sono aggiunti il fiorentino Danilo Musarella e il bergamasco Christian Belotti, pluricampione d’Italiano di goalball, un pallamano per non vedenti.
Lo zoccolo duro è formato dai giocatori della vecchia guardia raccolti attorno al formidabile Sarwar Ghulam, presidente-giocatore che ha portato questa disciplina in città nel 2017 dopo avere già vinto quattro scudetti a Milano.
La freccia in più è Saliou Diane, le cui doti di velocista non sono sfuggite agli esperti di atletica leggera, così il ventenne di Pontevico ha conquistato allori su ambo i fronti.
«Ciò che mi piace della Leonessa - spiega - è che le guide siano molto giovani, così abbiamo tanti altri interessi in comune oltre al baseball».
Legami forti, distinguibili da una stretta di mano, una carezza, il costante incitamento perché in questa squadra di campioni, sono speciali anche i giovanissimi che li accompagnano.
E da poche settimane si è aggiunta la diciannovenne Debora Longo, originaria di Ghedi, laureatasi due anni fa vicecampionessa italiana di karate nella categoria kata «Dopo tanti anni sui tatami volevo provare un’esperienza nuova mi sono sentita subito accolta».
Arriva sul diamante per nuovi trionfi.//